LEGGE 189/04
L’art. 727 c.p., al primo comma, punisce con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda da
1.000 a 10.000 euro chiunque abbandona animali domestici o che abbiano acquisito abitudini
della cattività.
La norma, inoltre, punisce con l’arresto fino ad un anno o l’ammenda da € 1.000,00 a €
10.000,00 chi detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di
gravi sofferenze.
Si tratta di un reato contravvenzionale, oblabile ai sensi dell’art. 162 bis c.p..
La natura di contravvenzione rende il fatto punibile sia se commesso con dolo, sia se cagionato
per colpa, ovvero per negligenza, imprudenza, imperizia o inosservanza di leggi o regolamenti.
Con sentenza del 9.6.2005, n. 21744 la Corte di Cassazione Penale, III Sezione, ha stabilito
che “la detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi
sofferenze può sicuramente essere ascritta anche ad una condotta colposa dell’agente in una
delle connotazioni indicate dall’art. 43 c.p.” (nel caso di specie la S.C. ha cassato la sentenza
del Giudice di merito, che aveva ritenuto non integrasse il reato de quo, per mancanza
dell’elemento soggettivo del dolo, il trasporto di tre cani da caccia stipati nel bagagliaio di
un’autovettura non comunicante con l’abitacolo, altresì in violazione di una delibera della
giunta regionale).
Soggetto attivo è il proprietario dell’animale, nonché ogni persona che per qualsiasi motivo
possegga, custodisca o comunque detenga l’animale.
Si richiede che la detenzione, oltre ad essere incompatibile con la natura dell’animale, abbia
anche prodotto “sofferenze gravi”, espressione che ha portato non pochi problemi
interpretativi.
Sul punto di recente la Cassazione ha confermato l’orientamento precedente, secondo cui per
accertare l’esistenza di “gravi sofferenze” non è necessario che siano riscontrabili lesioni fisiche
“potendo la sofferenza consistere in soli patimenti” (Cass. Pen. Sez. III, 24.1.2006, n. 2774).
Di conseguenza, tra le condizioni che possono configurare il reato, in relazione alla natura e
alla struttura etologica dell’animale, ci sono le “condotte che pur non accompagnate dalla
volontà di infierire, incidono senza giustificazione sulla sensibilità dell’animale producendo
dolore” (Cass. Pen. Sez. III, 14.3.1990).
Per valutare il grado di sofferenza di un animale, con riferimento alle condotte sopra
descritte, è necessario accertare le caratteristiche naturali e di specie dello stesso, unitamente
all’habitat e alle abitudini di vita.
Non è prevista la confisca dell’animale. Tuttavia, con una innovativa sentenza (n. 147/06 del
8.5.2006), il Tribunale di Bassano del Grappa ha ritenuto che “sebbene l’art. 727 non contenga
una specifica ipotesi di confisca, il cane in sequestro va confiscato ai sensi dell’art. 240 comma
2 n. 2 c.p.p., in relazione al divieto di detenzione dell’animale in condizioni incompatibili con la
sua natura”.
E’ comunque consentito alla Polizia Giudiziaria, quando vi sia il pericolo di aggravamento o di
protrazione delle conseguenze del reato, e la situazione di urgenza non permetta di attendere
il provvedimento del Giudice, procedere, prima dell’intervento del Pubblico Ministero, a
sequestro preventivo o sequestro probatorio dell’animale.
6.7. Che cosa si intende per sofferenza?
Nell'interpretazione più logica l'art. 727 c.p. non sanziona solo chi detiene animali in modo tale
da farli soffrire gravemente, ma chi li detiene con modalità capaci di offendere il loro benessere
e la sensibilità umana. Gli animali possono ancora oggi, come lo sono sempre stati, purtroppo,
essere privati della libertà, ma esigono attenzione e rispetto. Fatta questa premessa,
dall'indubbio carattere relativistico e storico e pertanto soggetta a una naturale e auspicabile
evoluzione nel senso di una sempre maggiore sensibilità nei confronti degli animali, deve
dedursi dalla complessiva formulazione del reato di cui all'art. 727 c.p. che perché una
detenzione violi la norma richiamata è sufficiente che all'animale venga impedito lo svolgimento di moduli comportamentali comuni che determinano un oggettivo stato di
sofferenza, tipo la liberta di deambulazione, il vivere in un ambiente sano ecc., o tipici della
propria specie, come la possibilità di aprire le ali, di fare brevi svolazzi ecc.
Gia con il “vecchio” articolo 727 c.p. vi erano state interpretazioni che legavano lo stato di
detenzione incompatibile alla presenza di “sofferenza”: “anche la detenzione in condizioni
incompatibili con la natura dell'animale deve essere sempre valutata in termini di sofferenza”
(Cass. pen., 23/2/95), ma ciò stava a significare non già che bisognava accertare una concreta
lesione all'integrità fisica dell'animale, quale conseguenza della detenzione in condizioni
incompatibili con la natura di questo, bensì che il legislatore aveva presunto, in via assoluta,
che siffatta detenzione implicasse una sofferenza dell'essere vivente, intesa nell'accezione del
perturbamento delle naturali funzioni fisiologiche o psichiche.
Se così non fosse, non sarebbe stato inserito fra le condotte vietate l'abbandono di animali
domestici o che abbiano acquisito abitudini alla cattività; fattispecie dalla quale, palesemente,
esula qualunque danno fisico diretto che colpisce, invece, l'animale nella sfera affettiva ed
emotiva. Non rientrano, quindi, nel concetto ampio di "sofferenza" solo danni fisici, lesioni o ferite, ma anche quei patimenti che determinano stress, angoscia, ansia, paura, nervosismo,stato di affaticamento, agitazione, privazioni emotive ecc.
A guardar bene la norma predetta, in effetti, vuole chiaramente arrivare a reprimere anche
comportamenti che, pur non cagionando lesioni fisiche agli animali, comportino forme di
trattamento mortificanti per gli stessi e quindi per l'uomo. È a tal proposito che si registra il
punto debole di diversi tentativi di lettura che, forzando in modo evidente il dato letterale
dell'art. 727 c.p., sono costretti a introdurre quale componente necessaria della fattispecie lo
stato di "sofferenza fisica dell'animale", quasi che la condotta in oggetto possa essere
sanzionata unicamente a fronte di lesioni dell'animale; certamente la ricorrenza di questa
costituisce componente indefettibile del reato di detenzione incompatibile con la natura
dell'animale. Ben possono configurarsi comportamenti che, pur non pervenendo a un
danneggiamento dello stato fisico dell'animale, non rispettano la sua indole, ovvero risultano in
contrasto con le leggi naturali e biologiche, determinando patimenti anche soltanto psichici,
oltre il ragionevole, la deambulazione o lo sviluppo delle normali attività fisiche. Oltretutto, la
presenza di lesioni o ferite configurerebbe una fattispecie penale diversa, ovvero il reato di
maltrattamento di animali di cui all'articolo 544-ter c.p. che punisce "chiunque, per crudeltà o
senza necessità, cagiona una lesione ad un animale".
Il Supremo Collegio, intervenendo su questo tema, ancora in vigore la formulazione
previgente, ha sentenziato che: "Ai fini della sussistenza del reato di cui all'articolo 727 del
c.p., non è necessario verificare se gli animali abbiano subito concretamente una qualche
sofferenza fisica essendo sufficiente accertare se vi sia incompatibilità tra le modalità concrete
della detenzione e le caratteristiche naturali ed etologiche degli animali. (...) In particolare l'elemento della sofferenza fisica, connaturato all'ipotesi di incrudelimento e sevizie, non è
necessario per integrare le altre ipotesi, ed in particolare quella di detenzione in condizioni
incompatibili con la natura degli animali" (Cass. Pen., Sezione III, sentenza del 5/2/1998 n.
1353 -Pres. Senafonte).
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